La vita che gratta di Tommaso Evangelista

La vita che gratta di Tommaso Evangelista

Le sculture in creta di Massimo Antonelli sono estreme riflessioni materiche che partono da un oggetto ben preciso, una grattugia in questo caso, per mostrare una varietà di forme e configurazioni che annullano il punto di partenza della ricerca per aprire a indefinite sperimentazioni sulla forma.
Come per le caffettiere di Riccardo Dalisi o le forchette di Bruno Munari assistiamo all’infinita trasfigurazione dell’utensile che da silenzioso strumento meccanico diventa struttura significante dotata di una propria aura. Proprio il conferimento dello status di opera comporta una percezione diversa, amplificata dall’apparente serialità dei lavori, e una visione analitica, quasi da microscopio, sulla struttura.
Nell’ossessione del bene di consumo c’è sicuramente un clima “pop” (celebre la frase di Wahrol “Gli artisti producono cose inutili che alcuni apprezzano e sono disposti a comperare) anche se le impressioni possono essere eterogenee poiché il trattamento della superficie e la scarnificazione dei profili ci rimandano alle dinamiche dell’informale mentre i buchi e gli squarci alle tensioni spaziali di Fontana.
Dall’esaltazione della ripetizione differenziata, col libero gioco dialettico tra riconoscibilità e assemblaggio-scavo, arriviamo così alla fine di Dio e ad un nichilismo di maniera nell’agitazione spaziale del collasso violato. Il modulo esaltato nelle sculture in metallo, e chiaramente in riferimento a forme architettoniche disumanizzanti e seriali, eccessivamente antinaturalistiche nella replica infinita, diventa ossessione dell’interno nei lavori in creta poiché i tagli e le ferite sono potente metafora di scavo interiore.
Dalla rilettura della forma quasi divina, come fosse un’architettura sacra, della grattugia emerge una sensibilità che cerca nelle pieghe dell’oggetto insolito una critica ironica e spietata allo stesso tempo. Come ha riferito in diverse interviste, per l’artista i buchi delle grattugie sono le tensioni disumanizzanti dell’organico diventato numero: “Sono stato a New York e sono salito sull’Empire State Building: ho visto milioni di grattugie! Un vespaio che mette paura, che non ha rapporto con l’uomo.
È la vita che ti gratta dentro; i buchi della grattugia sono tutti gli eventi tristi della vita: la solitudine, l’alienazione, la paranoia, la mia ulcera perforata. Se chiedi aiuto da una finestra di un grattacielo, non ti sente nessuno”. Le manipolazioni della creta diventano le dinamiche spietate della vita e sono gli occhi, inversi, dell’esistenza che guardano l’apparato umano dal profondo di una materia.
La grande bellezza dell’estetica superficiale contemporanea, quindi, viene ad implodere e collassare nella monumentalità invisibile di un utensile letto come abitazione ma vissuto come corpo di confine, da manipolare fino all’eccesso del buco. Nel sistema che schiaccia l’individuo la refrattarietà della superficie della grattugia, graffiante appunto e capace di segnare, diventa il racconto di un mondo segnato fin nel profondo dai tagli e dal dolore.
Una visione trasversale della vita che ha molto poco di dadaista, come potrebbe sembrare ad una prima lettura, e tanto di esistenziale poiché ogni segno, o stappo o fessura, è in fondo una mancanza e un’assenza non colmata dal desiderio ma solo da inutili paranoie.

The life that grates by Tommaso Evangelista

Massimo Antonelli’s clay sculptures are extreme material reflections that start from a very specific object, a grater in this case, to show a variety of shapes and configurations that cancel the starting point of the research to open up to indefinite experiments on form.
As with Riccardo Dalisi’s coffee pots or Bruno Munari’s forks, we witness the infinite transfiguration of the utensil which from a silent mechanical instrument becomes a significant structure with its own aura. Precisely the conferral of the status of a work entails a different perception, amplified by the apparent seriality of the works, and an analytical, almost microscope-like vision of the structure.
In the obsession with consumer goods there is certainly a “pop” climate (Wahrol’s famous phrase “Artists produce useless things that some appreciate and are willing to buy) even if the impressions can be heterogeneous since the treatment of the surface and the stripping of the profiles refers us to the dynamics of the informal while the holes and gashes refer to the spatial tensions of Fontana.
From the exaltation of differentiated repetition, with the free dialectical play between recognizability and assemblage-excavation, we thus arrive at the end of God and a mannered nihilism in the spatial agitation of violated collapse. The module exalted in the metal sculptures, and clearly in reference to dehumanizing and serial architectural forms, excessively anti-naturalistic in the infinite replication, becomes an obsession with the interior in the clay works since the cuts and wounds are a powerful metaphor of internal excavation.
From the rereading of the almost divine form, as if it were a sacred architecture, a sensitivity emerges that seeks an ironic and ruthless criticism at the same time in the folds of the unusual object. As he has reported in several interviews, for the artist the holes in the graters are the dehumanizing tensions of the workforce that has become numbers: “I was in New York and I climbed the Empire State Building: I saw millions of graters! A frightening hornet’s nest that has no relationship with man.
It’s life that grates inside you; the holes in the grater are all the sad events of life: loneliness, alienation, paranoia, my perforated ulcer. If you ask for help from a skyscraper window, no one will hear you.” The manipulations of clay become the ruthless dynamics of life and are the inverse eyes of existence that look at the human apparatus from the depths of a material.
The great beauty of contemporary superficial aesthetics, therefore, implodes and collapses in the invisible monumentality of a tool read as a dwelling but experienced as a border body, to be manipulated to the point of the excess of the hole. In the system that crushes the individual, the refractoriness of the surface of the grater, scratchy and capable of marking, becomes the story of a world marked to the core by cuts and pain.
A transversal vision of life that has very little of Dadaism, as it might seem at first reading, and a lot of existential since every sign, or gap or crack, is ultimately a lack and an absence not filled by desire but only by useless paranoia.