Grattacieli che grattano la pittura. Grattugie che svettano come groviera abitabili delle metropoli. Materiali diversi che si contaminano per evocare il paesaggio mentale. Quadri che adottano svariate chiavi espressive Massimo Antonelli parte dalla propria casa, dalla normalità del piccolo quotidiano.
Ha scrutato le forme anonime, recuperato un frammento domestico come la GRATTUGIA e costruito una personale deriva metropolitana. L’oggetto, adesso, si assume un dovere nuovo, qualcosa che non gli appartiene per natura: deve evocare il macroformato del mondo reale, diventare un edificio svettante che confermi la forza ammirevole del GESTO artistico. Un’azione infinitesimale ma pesante, un attimo in cui la grattugia, domestica e impilabile, crescere come un edificio. Un razionalista e silenzioso GRATTACIELO che incombe oltre la propria natura geometrica: verso una condizione astratta che sottolinea l’identità ormai diffusa di un costruire robotico e globalizzante.
Antonelli accumula un elemento minimo nelle visioni babeliche della torre verticale, lanciando nello spazio cromatico le vertigini dei rilievi o di impasti sempre più meticci. L’oggetto, che appare reale oppure pittorico, manipola l’apparente astrazione in un richiamo continuo alle città utopiche ma anche alle megalopoli esistenti. La metropoli rinasce qui come pura visione sintetica, un segno nel cielo che mescola evocazioni cerebrali e mistero, oggettivismi fotografici e sensualità scultoree, citazioni e libertà espressiva. Mentre scoprivo i quadri mi sovveniva il Mondo Sommerso di James G. Ballare. Una visione del futuro dove l’acqua ha ormai affogato le città, lasciando a galla soltanto le vette degli alti grattacieli. Pensavo che quelle grattugie fossero il vero archetipo del mondo prima dell’apocalisse acquatica. E rivedevo le sommersioni dell’edificio nel liquido cromatico, la sua vestizione con alghe materiche e humus pittorico, l’immobile galleggiamento nel plancton del gesto manuale.
La mostra CITTA’ è un percorso coerente che procede lungo anni di meditata ricerca. Un viaggio tra forme quadrate o verticali, tra gruppi di edifici o singoli grattacieli sopra colori piatti, talvolta sfumati e soffici, altre volte più selvaggi e liberatori. Ogni quadro stimola il pubblico ad interpretare la metropoli attraverso un semplice accessorio funzionale. Diciamo anche minimalista (parola da usare dopo attente avvertenze) per la sua perfetta sincronia di forma (i buchi a distanze regolari) e funzione (la fuoriuscita dell’alimento con una corretta distribuzione). Un gioco di spostamenti dove l’ironia, salvifica e costruttiva, si mescola ai contenuti elettrici del fatidico 11 settembre 2001.
Ricordando così la preveggenza dell’artista davanti alla realtà, la sua capacità di sintesi visiva, la forza poetica di un dettaglio che diventa vero, paradossalmente più credibile della vita in costante bilico.
Qualsiasi artista ha un obbligo genetico che riguarda la PREVEGGENZA, nella forza invisibile dello sguardo quando capta una scheggia di futuro. D’altronde, l’opera visiva contiene qualcosa che le appartiene in modo naturale, all’opposto di altri linguaggi che chiedono dinamiche sempre di meno istintive.
Nell’immagine statica quel qualcosa il diritto ad ipotizzare fatti e cose, a vedere lontano, sempre più in avanti rispetto alla cronaca del presente. Ad esempio, dipingendo e usando grattugie da diverso tempo, l’autore afferra la simbologia del grattacielo, la sua valenza epocale e, quindi, universale. Antonelli si fissa ossessivamente su un accessorio prediletto e lo mette al centro del quadro. Lavora attorno alla trama volumetrica, cambia colori e sfumature, modifica fondali e contorni. Usa la pittura per evocare l’oggetto col disegno e le scie cromatiche.
Oppure sceglie vere grattugie per costruire dei rilievi su lastre verniciate. Tocca gli estremi sporchi della manualità o la fredda perfezione tra elettronica e soluzioni industriali. Il feticcio certifica l’apertura ad un diversificabile viaggio figurativo: e le sue finestre sembrano contenere vita, energia umana che si nasconde dietro i fori.
A noi capire le valenze ulteriori del contenuto: se la vita invisibile prigionia oppure fuga dal caos esterno, obbligo coercitivo oppure solitudine ponderata. A noi nuove domande dopo le domande dell’artista curioso.
Il grattacielo come modulo dalle alte pareti e dalle perforazioni regolari. Un parallelepipedo che richiama la sintesi del mattoncino Lego, esempio magistrale di unità costruttiva e complessità del costruttore.
La grattugia agisce come il modulo Lego: vive da sola nell’autonomia della forma autoportante, definita; oppure si relaziona al tessuto urbano, creando un paesaggio globale di torri totemiche del futuro plausibile.
Cambiano i suoi colori a seconda del percorso figurativo: alcune opere richiamano la freddezza originale del metallo, usando maggiore specularità con la metropoli d’acciaio; altre volte l’elemento si veste di rosso o blu, ironizza sulla sua presenza incombente, sembra quasi galleggiare sul muro bianco o sulle zone materiche.
Una superficie divisa in due, grigio sopra e rosso sotto, racconta le colonne babeliche della metropoli algida e troppo geometrica. Un altro quadro, orizzontale come un cinemascope ristretto, digitalizza una grattugia tra due grattacieli di stazza eccellente. Un terzo quadro, magmatico nello spirito informale del grigio, lascia galleggiare una vera grattugia di colore rosso. Tre momenti diversi e significativi, tre formule dove il linguaggio modula la visione preveggente. Nel primo insegue i volumi scultorei e li mescola con la meccanica pulizia di stesure lisce e magistrali. Nel secondo sposta il registro sulla manipolazione definitiva del digitale, ricreando l’ipervisione più realistica dell’intero progetto. Nel terzo, infine, recupera una materia classica affinché permanga la valenza espressiva del gesto. Linguaggi opposti e compenetrabili, sintomi di un divagare che esprime la frammentazione interiore, il senso di inadeguatezza davanti ad un mondo troppo complesso ed immorale.
Chiudiamo ripartendo da gesto, improvviso, di quel recupero domestico. Un gesto che porta l’astrazione della forma nella concretezza del messaggio. E richiama le ragioni insinuanti del dubbio, della paura, dell’emozione condivisibile. Il progetto di Antonelli ci rispedisce così nella MEMORIA DELLA VIOLENZA: nel terreno interrogativo delle giuste domande, dei perché costanti, degli scavi dentro le buche della coscienza.
Si tratta di scivolare nel nero, nuotarci a lungo e tornare fuori dove circola ossigeno. Un salto coraggioso per guardare meglio i nostri punti interrogativi, le mille paranoie del quotidiano, i dilemmi etici di chi allo scoperto appena apre una finestra nella grattugia che ci protegge.
Cities by Gianluca Marziani
Skyscrapers scratching paint. Graters that stand out like inhabitable Gruyère cheeses in the metropolis. Different materials that contaminate each other to evoke the mental landscape. Paintings that adopt various expressive keys Massimo Antonelli starts from his own home, from the normality of small everyday life.
He scrutinized the anonymous forms, recovered a domestic fragment like the GRATER and built a personal metropolitan drift. The object, now, takes on a new duty, something that does not belong to it by nature: it must evoke the macro format of the real world, become a soaring building that confirms the admirable strength of the artistic GESTURE. An infinitesimal but heavy action, a moment in which the grater, domestic and stackable, grows like a building. A rationalist and silent SKYSCRAPER that looms beyond its geometric nature: towards an abstract condition that underlines the now widespread identity of a robotic and globalizing construction.
Antonelli accumulates a minimal element in the Babel-like visions of the vertical tower, launching the vertigo of the reliefs or increasingly mixed mixtures into the chromatic space. The object, which appears real or pictorial, manipulates the apparent abstraction in a continuous reference to utopian cities but also to existing megacities. The metropolis is reborn here as a pure synthetic vision, a sign in the sky that mixes cerebral evocations and mystery, photographic objectivism and sculptural sensuality, quotations and expressive freedom. As I discovered the paintings I was reminded of James G. Ballare’s Underwater World. A vision of the future where water has now drowned the cities, leaving only the tops of the tall skyscrapers afloat. I thought those graters were the true archetype of the world before the aquatic apocalypse. And I saw again the submersions of the building in the chromatic liquid, its dressing with material algae and pictorial humus, the immobile floating in the plankton of the manual gesture.
The CITTA’ exhibition is a coherent journey that proceeds along years of thoughtful research. A journey between square or vertical shapes, between groups of buildings or individual skyscrapers over flat colours, sometimes shaded and soft, other times wilder and more liberating. Each painting stimulates the public to interpret the metropolis through a simple functional accessory. We also say minimalist (a word to be used after careful warnings) for its perfect synchrony of shape (the holes at regular distances) and function (the release of the food with correct distribution). A game of movements where irony, salvific and constructive, mixes with the electric contents of the fateful September 11, 2001.
Thus recalling the artist’s foresight in the face of reality, his capacity for visual synthesis, the poetic strength of a detail that becomes true, paradoxically more credible than life in constant balance.
Any artist has a genetic obligation that concerns FORESIGHT, in the invisible force of the gaze when he captures a sliver of the future. On the other hand, the visual work contains something that belongs to it in a natural way, unlike other languages that require less and less instinctive dynamics.
In the static image that something is the right to hypothesize facts and things, to see far ahead, always further ahead than the news of the present. For example, by painting and using graters for some time, the author grasps the symbolism of the skyscraper, its epochal and, therefore, universal value. Antonelli obsessively fixates on a favorite accessory and places it at the center of the painting. He works around the volumetric texture, changes colors and shades, modifies backdrops and contours. He uses painting to evoke the object with drawing and color trails.
Or he chooses real graters to build reliefs on painted plates. He touches the dirty extremes of manual skills or the cold perfection between electronics and industrial solutions. The fetish certifies the openness to a diversifiable figurative journey: and its windows seem to contain life, human energy that hides behind the holes.
It is up to us to understand the further values of the content: whether invisible life is imprisonment or escape from external chaos, coercive obligation or considered solitude. New questions for us after the questions of the curious artist.
The skyscraper as a module with high walls and regular perforations. A parallelepiped that recalls the synthesis of the Lego brick, a masterful example of construction unity and complexity of the builder.
The grater acts like the Lego module: it lives alone in the autonomy of the self-supporting, defined form; or it relates to the urban fabric, creating a global landscape of totemic towers of the plausible future. Its colors change depending on the figurative path: some works recall the original coldness of the metal, using greater specularity with the steel metropolis; other times the element is dressed in red or blue, ironic about its looming presence, it almost seems to float on the white wall or on the material areas. A surface divided in two, gray above and red below, tells of the Babel-like columns of the cold and too geometric metropolis. Another painting, horizontal like a narrow cinemascope, digitizes a grater between two skyscrapers of excellent size. A third painting, magmatic in the informal spirit of grey, leaves a real red grater floating. Three different and significant moments, three formulas where language modulates prescient vision. In the first he pursues sculptural volumes and mixes them with the mechanical cleanliness of smooth and masterful drawings. In the second he shifts the register to the definitive manipulation of digital, recreating the most realistic hypervision of the entire project. Finally, in the third, he recovers a classical material so that the expressive value of the gesture remains. Opposing and interpenetrable languages, symptoms of a wandering that expresses internal fragmentation, the sense of inadequacy in the face of an overly complex and immoral world.
We close by starting from the sudden gesture of that domestic recovery. A gesture that brings the abstraction of the form into the concreteness of the message. And it recalls the insinuating reasons of doubt, of fear, of shareable emotion. Antonelli’s project thus sends us back into the MEMORY OF VIOLENCE: into the interrogative terrain of the right questions, of the constant whys, of digging into the holes of conscience.
It’s about slipping into the black, swimming there for a long time and coming back out where oxygen circulates. A courageous leap to better look at our question marks, the thousand paranoias of everyday life, the ethical dilemmas of those who come out into the open as soon as they open a window in the grater that protects us.