“Città” – Gianluca Marziani


Grattacieli che grattano la pittura. Grattugie che svettano come groviera abitabili delle metropoli. Materiali diversi che si contaminano per evocare il paesaggio mentale. Quadri che adottano svariate chiavi espressive Massimo Antonelli parte dalla propria casa, dalla normalità del piccolo quotidiano.


Ha scrutato le forme anonime, recuperato un frammento domestico come la GRATTUGIA e costruito una personale deriva metropolitana. L’oggetto, adesso, si assume un dovere nuovo, qualcosa che non gli appartiene per natura: deve evocare il macroformato del mondo reale, diventare un edificio svettante che confermi la forza ammirevole del GESTO artistico. Un’azione infinitesimale ma pesante, un attimo in cui la grattugia, domestica e impilabile, crescere come un edificio. Un razionalista e silenzioso GRATTACIELO che incombe oltre la propria natura geometrica: verso una condizione astratta che sottolinea l’identità ormai diffusa di un costruire robotico e globalizzante.


Antonelli accumula un elemento minimo nelle visioni babeliche della torre verticale, lanciando nello spazio cromatico le vertigini dei rilievi o di impasti sempre più meticci. L’oggetto, che appare reale oppure pittorico, manipola l’apparente astrazione in un richiamo continuo alle città utopiche ma anche alle megalopoli esistenti. La metropoli rinasce qui come pura visione sintetica, un segno nel cielo che mescola evocazioni cerebrali e mistero, oggettivismi fotografici e sensualità scultoree, citazioni e libertà espressiva. Mentre scoprivo i quadri mi sovveniva il Mondo Sommerso di James G. Ballare. Una visione del futuro dove l’acqua ha ormai affogato le città, lasciando a galla soltanto le vette degli alti grattacieli. Pensavo che quelle grattugie fossero il vero archetipo del mondo prima dell’apocalisse acquatica. E rivedevo le sommersioni dell’edificio nel liquido cromatico, la sua vestizione con alghe materiche e humus pittorico, l’immobile galleggiamento nel plancton del gesto manuale.


La mostra CITTA’ è un percorso coerente che procede lungo anni di meditata ricerca. Un viaggio tra forme quadrate o verticali, tra gruppi di edifici o singoli grattacieli sopra colori piatti, talvolta sfumati e soffici, altre volte più selvaggi e liberatori. Ogni quadro stimola il pubblico ad interpretare la metropoli attraverso un semplice accessorio funzionale. Diciamo anche minimalista (parola da usare dopo attente avvertenze) per la sua perfetta sincronia di forma (i buchi a distanze regolari) e funzione (la fuoriuscita dell’alimento con una corretta distribuzione). Un gioco di spostamenti dove l’ironia, salvifica e costruttiva, si mescola ai contenuti elettrici del fatidico 11 settembre 2001.


Ricordando così la preveggenza dell’artista davanti alla realtà, la sua capacità di sintesi visiva, la forza poetica di un dettaglio che diventa vero, paradossalmente più credibile della vita in costante bilico.


Qualsiasi artista ha un obbligo genetico che riguarda la PREVEGGENZA, nella forza invisibile dello sguardo quando capta una scheggia di futuro. D’altronde, l’opera visiva contiene qualcosa che le appartiene in modo naturale, all’opposto di altri linguaggi che chiedono dinamiche sempre di meno istintive.


Nell’immagine statica quel qualcosa il diritto ad ipotizzare fatti e cose, a vedere lontano, sempre più in avanti rispetto alla cronaca del presente. Ad esempio, dipingendo e usando grattugie da diverso tempo, l’autore afferra la simbologia del grattacielo, la sua valenza epocale e, quindi, universale. Antonelli si fissa ossessivamente su un accessorio prediletto e lo mette al centro del quadro. Lavora attorno alla trama volumetrica, cambia colori e sfumature, modifica fondali e contorni. Usa la pittura per evocare l’oggetto col disegno e le scie cromatiche.


Oppure sceglie vere grattugie per costruire dei rilievi su lastre verniciate. Tocca gli estremi sporchi della manualità o la fredda perfezione tra elettronica e soluzioni industriali. Il feticcio certifica l’apertura ad un diversificabile viaggio figurativo: e le sue finestre sembrano contenere vita, energia umana che si nasconde dietro i fori.


A noi capire le valenze ulteriori del contenuto: se la vita invisibile prigionia oppure fuga dal caos esterno, obbligo coercitivo oppure solitudine ponderata. A noi nuove domande dopo le domande dell’artista curioso.


Il grattacielo come modulo dalle alte pareti e dalle perforazioni regolari. Un parallelepipedo che richiama la sintesi del mattoncino Lego, esempio magistrale di unità costruttiva e complessità del costruttore.


La grattugia agisce come il modulo Lego: vive da sola nell’autonomia della forma autoportante, definita; oppure si relaziona al tessuto urbano, creando un paesaggio globale di torri totemiche del futuro plausibile.


Cambiano i suoi colori a seconda del percorso figurativo: alcune opere richiamano la freddezza originale del metallo, usando maggiore specularità con la metropoli d’acciaio; altre volte l’elemento si veste di rosso o blu, ironizza sulla sua presenza incombente, sembra quasi galleggiare sul muro bianco o sulle zone materiche.


Una superficie divisa in due, grigio sopra e rosso sotto, racconta le colonne babeliche della metropoli algida e troppo geometrica. Un altro quadro, orizzontale come un cinemascope ristretto, digitalizza una grattugia tra due grattacieli di stazza eccellente. Un terzo quadro, magmatico nello spirito informale del grigio, lascia galleggiare una vera grattugia di colore rosso. Tre momenti diversi e significativi, tre formule dove il linguaggio modula la visione preveggente. Nel primo insegue i volumi scultorei e li mescola con la meccanica pulizia di stesure lisce e magistrali. Nel secondo sposta il registro sulla manipolazione definitiva del digitale, ricreando l’ipervisione più realistica dell’intero progetto. Nel terzo, infine, recupera una materia classica affinché permanga la valenza espressiva del gesto. Linguaggi opposti e compenetrabili, sintomi di un divagare che esprime la frammentazione interiore, il senso di inadeguatezza davanti ad un mondo troppo complesso ed immorale.


Chiudiamo ripartendo da gesto, improvviso, di quel recupero domestico. Un gesto che porta l’astrazione della forma nella concretezza del messaggio. E richiama le ragioni insinuanti del dubbio, della paura, dell’emozione condivisibile. Il progetto di Antonelli ci rispedisce così nella MEMORIA DELLA VIOLENZA: nel terreno interrogativo delle giuste domande, dei perché costanti, degli scavi dentro le buche della coscienza.


Si tratta di scivolare nel nero, nuotarci a lungo e tornare fuori dove circola ossigeno. Un salto coraggioso per guardare meglio i nostri punti interrogativi, le mille paranoie del quotidiano, i dilemmi etici di chi allo scoperto appena apre una finestra nella grattugia che ci protegge.

Massimo Antonelli - Città