“PLOT@RT” “4 italiani a Lisbona” “La vertigine del moderno” – Nori Zandomenego


“PLOT@RT” – Nori Zandomenego


Dopo averci incantato con le sue opere pittoriche e con il minimalismo elegante delle sue istallazioni, sempre fedele alla grattugia, l’artista si cimenta ora con l’elaborazione digitale. La grattugia realizzata ad acrilico o con i colori a spray attraverso un modulo sempre uguale, divenuta ora icona di sperimentazioni nuove, di modi di raccontare imprevedibili.


Là dove l’artista decideva nelle pitture i colori da utilizzare e di conseguenza sapeva, come nelle istallazioni, l’esatto effetto che avrebbe ottenuto, qui si tratta di lasciare al caso e all’istinto il sopravvento affidandosi completamente al computer e ai suoi programmi di elaborazione grafica: attraverso filtri, deformazioni, effetti pittorici e coloristici propri della digitale. In questo modo Massimo riuscito non solo a disancorare l’oggetto dalla sua utilità, come nei lavori precedenti, ma qui risulta assolutamente difficile rintracciare il ricordo della reale natura di questi attrezzi.


La fotografia di partenza stata, se pur digitalmente, stavolta, ha perduto e per sempre, i suoi connotati, la sua identità. Il grattacielo dell’indifferenza, dei graffi, dei soprusi, della società contemporanea malata e priva di valori ed ideali, svetta più che mai imperioso sul paesaggio virtuale dell’opera. Cosi come una torre di Babele o un totem tribale, la sua santità oltre che celebrata viene definitivamente consacrata. La magia che sempre nasce dai lavori di questo artista, giovane nei sentimenti e sempre curioso e vigile del quotidiano, si carica ora di un sapore esoterico, impalpabile.


La grattugia appare improvvisa e squillante su uno sfondo monocromatico scuro cos come sembra che da un momento all’altro proprio quello sfondo cos inquietante la possa riassorbire. La vertigine del moderno che ancora una volta scaturisce dalle sue opere, ci affascina e contemporaneamente ci proietta verso l’alto, verso spazi sconfinati e porzioni in quantificabili di infinito.


“4 italiani a Lisbona” – Nori Zandomenego


Massimo Antonelli, regista cinematografico, presentatore ed autore televisivo, oggi un artista conosciuto e molto apprezzato sul territorio nazionale. Già da diversi anni ha trovato nella grattugia l’oggetto che simbolicamente sintetizza e si fa testimone del suo tormento esistenziale. Le città, o meglio i palazzi che le grattugie diventano nelle sue opere, sono scorci urbani desolati, privi di vita, di rumori, di suoni, ma contemporaneamente questi edifici sono gonfi della sua anima tormentata, imprigionata in case dalle pareti che graffiano, feriscono, e fanno sanguinare. Un’anima imprigionata, costretta e vincolata entro lo spazio tridimensionale ma limitato delle sue istallazioni.


I materiali utilizzati da Antonelli sono le lamiere smaltate, monocromatiche o a pi colori e le grattugie di alluminio anch’esse smaltate di diversi colori. Le grattugie dunque erette a simbolo di angoscia esistenziale nella società contemporanea suggeriscono, proprio attraverso il colore, la speranza di un futuro nel quale una società civile migliore di oggi possa ospitare gli esseri umani che sopravvivranno o da questa nasceranno.


Lo sfondo delle sue istallazioni, che diventa al contempo l’orizzonte delle sue città, suggerisce il tramonto di un’era, ma anche l’alba di un epoca nuova.


La grattugia, ossia un elemento comune che chiunque possiede ed utilizza, dall’artista usata come tassello di un puzzle o il pezzo ad incastro di una costruzione, nelle sue opere l’elemento portante, che smettendo l’utilità pratica della sua origine, e diventando parte di una composizione d’arte, diventa di fatto e visivamente per chiunque la protagonista indiscussa dei suoi oggetti d’arte. Le sue composizioni sono dei giocattoli, all’interno di una qualsiasi scatola l’artista può ogni volta alternare colori, sovrapporre ed espirare grattugie, togliere e mettere, ogni volta ricreare, rimodellare, iniziare un nuovo racconto, un nuovo mondo.


“La vertigine del moderno” di Nori Zandomenego


… questi luoghi si mostravano a me come tiranni transitori, e, in qualche modo, come gli agenti del caso presso la mia sensibilità. Mi fu chiaro infine che avevo la vertigine del moderno (Louis Argon Le paysan del Paris 1926). Girovagando tra i palazzi e le città di Antonelli questo che si avverte: la vertigine del moderno, la precarietà dello spazio metropolitano che tutto può inghiottire. I borghi urbani, le città fabbrica, le periferie industriali, sono da sempre argomento d’indagine per l’artista, sia nei suoi numerosi documentari per la televisione, sia nel suo cinema verità. Dopo essersi confrontato per diversi anni con la cinepresa e aver ricevuto importanti riconoscimenti, Massimo ritorna a dedicarsi all’arte figurativa dalla quale era partito. Per Antonelli l’incontro con la grattugia, avvenuto per caso in un negozio di casalinghi, ha rappresentato un ritorno all’infanzia, alla stanzetta dei giochi, alle costruzioni Lego e Meccano.


In quel momento gli agenti del caso, come li chiama Argon, arrivarono alla sua sensibilità, ed un oggetto da sempre posseduto e usato si rivela come qualcosa di nuovo , insolito, meraviglioso. Il meraviglioso si verifica nel caso oggettivo: nell’esplorazione di una città e di conseguenza nell’analisi della società contemporanea attraverso la riscoperta di un oggetto. Rompere la familiarità con le cose ha permesso a Massimo di scoprire come sono fragili i rapporti che legano gli elementi della realtà, tanto fragili da poterli disarticolare, trasformare in altre cose, trasmutare continuamente.


In questo modo l’autore raggiunge un piano parallelo da dove poter osservare il mondo in maniera ironica e godere di ci che da questo spettacolo scaturisce. I suoi giocattoli, le sue costruzioni, il suo mondo ludico sono ora tristi, ora carichi di speranza, ma sempre portavoce del suo stato d’animo. I buchi delle grattugie sono per lui la tristezza, la solitudine, l’alienazione, la paranoia, l’ulcera perforata, citando un’intervista di qualche anno fa, ma quei buchi sono anche il punto privilegiato dal quale porsi in osservazione. Un’ironia paradossale e grottesca diventa dunque materia nei suoi lavori.


La città che meglio si riconosce nelle sue opere New York, il simbolo dell’America, del mondo occidentale, la città mito della libertà. Con la grattugia invece, che qui palazzo o grattacielo se impilata, l’artista presenta una New York smitizzata: Non può esserci espressione di libertà in una città graffiante, popolata di palazzi freddi. Dai buchi di quei palazzi escono solo grida sorde perché nessuno può essere udito in una megalopoli in cui l’indifferenza, l’ambizione, il consumismo sfrenato ed un sistema economico che schiaccia il resto del mondo, sono i motori che la muovono.


La Grande Mela, così chiamata perché nei secoli simbolo di tentazione e lido di approdo per i sogni e le speranze di gran parte degli uomini della Terra, si trasformata qui da ammaliante seduttrice in una macchina vorace e tiranna che attirando a s, annienta nella sua indifferenza. Ma i valori, le piccole cose, l’animo del fanciullo che risiede in ognuno di noi, dove sono finiti? L’uomo dove si trova in tutto questo? L’essere umano non compare nelle istallazioni di Antonelli sotto sembianze o spoglie palesi, ma in sintesi evocato attraverso le grattugie-palazzo che sono abitate o i simboli del lavoro di questa ultima ma significativa produzione.


Le sue scatole, le sue istallazioni, sono dei teatrini, delle quinte, gli allestimenti per un dramma: quello della vita e della società contemporanea, rappresentato qui a metà tra il tragico e il comico. Ad un certo punto accanto alla grattugia in alluminio lasciata al naturale fredda e carica di rammarico e rabbia che descrive un paesaggio urbano posto al tramonto di un’era, compare la grattugia smaltata di diversi colori, che pone le nuove città all’alba di un’epoca nuova. I colori qui si fanno portavoce di un messaggio ottimistico per la società urbana del futuro, una sorta di ritorno al mito.


La grattugia rappresenta un oggetto del quotidiano tolto dal contesto in cui esprime la sua utilità per essere catapultato in un ambiente in cui viene celebrato come oggetto d’arte non per compiere un’operazione di provocazione o dissacrazione della cultura e dell’arte cosiddetta accademica, ma per tentare di annichilire nella denuncia la società urbana contemporanea. La storia ci ha sempre presentato due tipi di poeti ed artisti, uno concentrato nella rappresentazione del mondo interiore, dei sentimenti, dei sogni, ed uno impegnato a rappresentare oggettivamente la realtà esterna: In Massimo, poeta ed artista nell’animo oltre che nella forma, convivono entrambi questi tipi di autori perché attraverso i capricci della sua personalità, le sue angosce e speranze, le sue delusioni e conquiste, il suo misticismo e i suoi ideali, anche politici, che ci presenta la realtà.


I mondi dell’artista, le stanze colme dei suoi giocattoli, i palcoscenici che allestisce, rappresentano al contempo un rifugio dove l’autore si ritira per sottrarsi alla sofferenza e al dolore. Non c nulla che possa meglio esorcizzare l’angoscia esistenziale che la rappresentazione della stessa in forma ironica. Massimo si diverte con le pedine ad incastro delle sue composizioni, sovrappone i pezzi, li aggiunge o li toglie, accosta i colori, li dispone su superfici diverse, ogni volta trasforma e crea un nuovo paesaggio, ogni volta racconta una storia nuova. Sempre i suoi lavori sono sobri, eleganti e minimalisti, l’amore per il design e l’architettura lo ha portato a utilizzare i colori della Bauhaus e a farli propri. Anche in questa ultima produzione egli gioca con gli elementi delle istallazioni e fa giocare gli elementi stessi tra loro.


Questi dodici pezzi, simbolo del lavoro e della classe operaia, sono composti da attrezzi verniciati di argento metallizzato e da pile di grattugie incastrate e fissate ai manici, ciascuna colonna di grattugie utilizza per due volte i sei colori Antonelli. Il paradosso e l’ironia scaturiscono anche in questo caso dall’incontro di oggetti in contrasto: attrezzi da lavoro operaio e attrezzi da cucina, in un luogo dove sono allo stesso modo fuori luogo; una mostra d’arte, e dove sfuggono alla loro finalità ed identità per assumerne un’altra. Tutto questo possibile con un’operazione concettuale ne poetica.


Ho chiesto all’artista di definirsi con una sola parola e la risposta stata: “Sono un sognatore. un animo gentile e con spirito curioso e sognatore che ci si deve avvicinare alla comprensione di questa mostra danese.” Un viaggio nel mondo e nella società contemporanea attraverso un grande maestro che riesce ancora a stupirsi e a stupire con spirito da bambino. In una società in cui l’abitudine distrugge la percezione dell’insolito come meravigliosa, trovare un artista ed un uomo in cui non morto il sentimento dell’esistenza, ma che celebra costantemente lo stupore di fronte al quotidiano, diventa un’occasione importante ed unica.