“La vita che gratta” – Tommaso Evangelista e Stefano Fioretti


Le sculture in creta di Massimo Antonelli sono estreme riflessioni materiche che partono da un oggetto ben preciso, una grattugia in questo caso, per mostrare una varietà di forme e configurazioni che annullano il punto di partenza della ricerca per aprire a indefinite sperimentazioni sulla forma.


Come per le caffettiere di Riccardo Dalisi o le forchette di Bruno Munari assistiamo all’infinita trasfigurazione dell’utensile che da silenzioso strumento meccanico diventa struttura significante dotata di una propria aura. Proprio il conferimento dello status di opera comporta una percezione diversa, amplificata dall’apparente serialità dei lavori, e una visione analitica, quasi da microscopio, sulla struttura.


Nell’ossessione del bene di consumo c’è sicuramente un clima “pop” (celebre la frase di Wahrol “Gli artisti producono cose inutili che alcuni apprezzano e sono disposti a comperare) anche se le impressioni possono essere eterogenee poiché il trattamento della superficie e la scarnificazione dei profili ci rimandano alle dinamiche dell’informale mentre i buchi e gli squarci alle tensioni spaziali di Fontana.


Dall’esaltazione della ripetizione differenziata, col libero gioco dialettico tra riconoscibilità e assemblaggio-scavo, arriviamo così alla fine di Dio e ad un nichilismo di maniera nell’agitazione spaziale del collasso violato. Il modulo esaltato nelle sculture in metallo, e chiaramente in riferimento a forme architettoniche disumanizzanti e seriali, eccessivamente antinaturalistiche nella replica infinita, diventa ossessione dell’interno nei lavori in creta poiché i tagli e le ferite sono potente metafora di scavo interiore.


Dalla rilettura della forma quasi divina, come fosse un’architettura sacra, della grattugia emerge una sensibilità che cerca nelle pieghe dell’oggetto insolito una critica ironica e spietata allo stesso tempo. Come ha riferito in diverse interviste, per l’artista i buchi delle grattugie sono le tensioni disumanizzanti dell’organico diventato numero: “Sono stato a New York e sono salito sull’Empire State Building: ho visto milioni di grattugie! Un vespaio che mette paura, che non ha rapporto con l’uomo.


È la vita che ti gratta dentro; i buchi della grattugia sono tutti gli eventi tristi della vita: la solitudine, l’alienazione, la paranoia, la mia ulcera perforata. Se chiedi aiuto da una finestra di un grattacielo, non ti sente nessuno”. Le manipolazioni della creta diventano le dinamiche spietate della vita e sono gli occhi, inversi, dell’esistenza che guardano l’apparato umano dal profondo di una materia.


La grande bellezza dell’estetica superficiale contemporanea, quindi, viene ad implodere e collassare nella monumentalità invisibile di un utensile letto come abitazione ma vissuto come corpo di confine, da manipolare fino all’eccesso del buco. Nel sistema che schiaccia l’individuo la refrattarietà della superficie della grattugia, graffiante appunto e capace di segnare, diventa il racconto di un mondo segnato fin nel profondo dai tagli e dal dolore.


Una visione trasversale della vita che ha molto poco di dadaista, come potrebbe sembrare ad una prima lettura, e tanto di esistenziale poiché ogni segno, o stappo o fessura, è in fondo una mancanza e un’assenza non colmata dal desiderio ma solo da inutili paranoie.


Le immagini, il commento – Stefano Fioretti


L’Officina Solare Gallery di Termoli accoglie mediamente mostre di ottima qualità. Fermo restando che la valutazione dipende comunque anche dai gusti personali e dl livello di apertura, diremmo di libertà, della mente dell’osservatore di turno, soprattutto perché raramente ospita arti figurative, può capitare di imbattersi da quelle parti in rassegne dai significati semplici o se vogliamo non particolarmente impegnativi, o al contrario in esposizioni che creano emozioni immediate e stimoli importanti.


E’ senza dubbio, quest’ultimo, il caso della personale di Massimo Antonelli. Appena entrati nella galleria si viene aggrediti dal contrasto generato dagli elementi che compongono la mostra: le grattugie “vere”, quelle in metallo, disposte a mò di palazzine in serie e in “condominio” sul davanzale dell’unica finestra; altre grattugie collocate al centro di numerosi violini scopliti e appesi alle pareti; infine, ed è il cuore pulsante, le sculture in creta, tutte raffiguranti sempre e ancora grattugie che rappresentano palazzi, grattacieli, case, in una parola cementificazione.


L’artista ha dichiarato, quando intervistato su questo filone, che guardando grattacieli dall’alto, a New York, ha avuto l’impressione di vedere tante grattugie che “grattano dentro”, in quella grottesca strutturazione urbanistica che nulla lascia alla dimensione umana. Ha aggiunto che nella sua opera i fori delle grattugie sono le sofferenze, le alienazioni e “la mia ulcera perforata”. Io, magari peccando di presunzione, ho visto qualcosa di più.


Certo, il “Condominio sulla finestra” è lì a simboleggiare una quantità (di cemento e metallo) che ha quasi uccisa la qulalità (della vita), che spersonalizza e disumanizza e rende gli individui che vi abitano dei numeri. Ma è lì e in fondo sopravivve, anzi vivacchia, troneggiando su un altro scorcio dello stesso mondo che invece, quello si, comunica qualcosa che al tempo stesso è drammatica ma potenzialmente un segno di rinascita: il collasso strutturale delle nefandezze dell’uomo.


Innanzitutto si nota che non ci sono due “grattugie” simili tra quelle, tutte molto belle, di creta.Le strutture integre sono pochissime mentre tutte le altre hanno almeno uno squarcio, quando non sono afflosciate su se stesse o completamente devastate, senza contare i tagli ed i “tormenti” interni alle realizzazioni. Alcune, di color fumo scurissimo, quasi nero, paiono gemere perché intossicate dall’inquinamento.


C’è poi quella che ha tutta l’aria di una delle Twin Towers durante il drammatico crollo. Magari è una mia “fantasia da interpretazione”, ma senza dubbio la rappresentata rovina dell’eccesso di cementificazione, di quei grattacieli che sembrano voler annullare ogni emozione, di quei palazzi che dopo essersi illegittimamente insediati in spazi prima appannaggio della Vita ora cadono inersorabilmente sotto i colpi dell’incuria, della presunzione umana ma anche degli Elementi della Natura, svela qualcosa di profondo dell’artista e viene da domandarsi se esprima più un desiderio o una profezia.


Forse entrambe, ma non c’è modo di commettere errori affermando che Massimo Antonelli avversa e condanna senza indugio lo scempio che il nostro Tempo sta riuscendo a fare dei grandi patrimoni dell’umanità, cultura e dimensione umana in testa. Il messaggio mi è è piovuto addosso così chiaro ed omogeneo che ho avuto la sensazione di osservare un’unica opera piuttosto che tante singole.


I numerosi violini con la grattugia al centro costituiscono l’elemento che immediatamente sferra il pugno nello stomaco e, personalmente, mi hanno regalata una spiegazione nitida: l’arte vera, la musica, la cultura che il degrado e la cementificazione hanno scalzato per prenderne il posto in realtà sono lì, incombenti, pronte a riappropriarsi di quegli spazi usurpati e ad illuminare ancora il genere umano. Non a caso inglobano, anzi sembrano fagocitare, la famigerata grattugia.


Questa mostra è davvero molto bella, altamente significativa ed emozionante.

Massimo Antonelli - La vita che gratta