All’insegna della solennità mediocre di una ricorrente ferita di adagiamento sui troni dell’indifferenza, prende a muoversi e a farci male la ruvida trasmissione emessa da Massimo Antonelli.
Lui attribuisce l’afflizione che poggia sulla distrazione (e distribuzione) di sensi riposati dall’offerta irraggiungibile della monumentalità, ha una società che invita al relax per lacerare meglio, per stabilire con maggiore accuratezza – proprio mentre siamo adagiati – le modalità lesive con le quali graffiarci. Palazzi vicino al castello Kafkiano (padrone di tutte le burocrazie), grattacieli e costruzioni compongono il quadro di Antonelli come gli scarti e i detriti metropolitani portavano la città dentro i collage combinati di Rauschenberg.
La provvisorietà di assemblaggi urbani giace sopra l’instabilità di ipocrisie colorate, testimonia l’invisibilità di centri in preda al caos sulle cui facciate traspare l’armatura in scala di tutti gli scudi indossati dalle distanze.
Un attrezzo da cucina veste cos i panni di un marchio di artista adoperato per creare assetti multicolore precipitanti o individualismi ben piazzati a prova di scosse emotive. Ferro laccato e tinte pop vivacizzano la recita dell’imperturbabilità e del distacco che si fondono davanti al nero che si ergono maestose e compatti come fortezze piene di buchi dai bordi rilevati.